Miseria e nobilta’ della medicina generale

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Francesco Benincasa

 Medico di Medicina Generale. Neuropsichiatra Infantile. Psicoterapeuta

Socio Fondatore Centro Studi e Ricerche in Medicina Generale. CSeRMeG

 

ABSTRACT:

L’attività di Medico di Medicina Generale, solitamente sottostimata nella sua portata, espone ad un costante confronto con le pretese del pubblico, le pressioni del mercato e le richieste del terzo pagante. Schiacciato tra questi tre soggetti, il clinico rischia di sentirsi misero, venire sopraffatto e subire amare delusioni. Il medico può trarre dal proprio nobile lavoro sorprendenti soddisfazioni attraverso la cultura, l’esercizio del pensiero critico, l’abitudine alla dimensione dell’incertezza, l’attenzione all’aspetto relazionale e una ferma opposizione alle procedure superflue.

PAROLE CHIAVE:

Medicina Generale. Relazione medico-paziente.

Introduzione

Questo scritto avrebbe la pretesa di mettere a fuoco sia gli aspetti positivi e consolatori della Medicina Generale, sia le caratteristiche che la rendono faticosa da esercitare. Vuole essere un elogio della medicina clinica, della semeiotica, della contiguità con il paziente. E’ uno scritto volutamente démodé, che vorrebbe affiancare progresso tecnologico e componenti emozionali nella clinica.

Il titolo si riferisce a due degli stati d’animo comuni di chi pratica la medicina generale: ci si sente spesso estremamente poveri e ignoranti mentre si fa il possibile per conservare la dignità di una professione piena di sorprese e occasioni di conoscenza.

La Medicina Generale sa offrire grandi soddisfazioni, che incoraggiano una nobile eccellenza, tutte le volte che si è in grado di esercitare verso il paziente una esclusiva considerazione sia sul piano cognitivo che su quello emotivo.

Negli ultimi lustri ci si è chiesto sempre più di frequente se sia aumentato il carico di reali patologie o se sia la paura ad essere divenuta iperbolica. Se da una parte si assiste a un incremento della cronicità, delle comorbilità e ad un conseguente aumento delle richieste di cure domiciliari, di consultazioni faccia a faccia e telefoniche, dall’altra ha luogo un uso eccessivo di procedure mediche, il cui utilizzo rappresenta un potenziale danno più che un reale vantaggio1.

Ogni discostamento dai cosiddetti modelli di normalità viene considerato patologico e quindi degno di considerazione-trattamento, inducendo una viscerale, patologica intolleranza al dolore e alla frustrazione, che non variano nemmeno più in base ai comportamenti sociali e alla cultura.

C’è una ricerca spasmodica di soluzioni rapide e indolori che non vorrebbero rispettare i processi biologici della guarigione o della malattia.

Si eccede nell’uso della diagnosi come conseguenza di procedure di screening superflue; ne consegue un eccesso di medicalizzazione attraverso la quale condizioni ordinarie vengono trasformate in disfunzioni da correggere.

Lo spazio discrezionale, una volta a disposizione della relazione medico-malato, si va annullando; la relazione, cardine della cura dei malesseri e delle infermità, è sempre meno salda. Tutto lo spazio è dedicato alle patologie, dove la soggettività del paziente non viene considerata e dove linee guida e protocolli la fanno da padrone2.

 

I doveri del medico: ciò che andrebbe fatto

La Medicina Generale costituisce un’attività estremamente problematica in cui non si vince mai completamente e in cui di rado si riesce a realizzare ciò che andrebbe fatto.

Si può al massimo raggiungere una tendenza che quasi mai può essere portata a termine in senso compiuto. Per sua natura la medicina generale comporta la regola del compromesso, del negoziato, dove nessuno trionfa e nessuno viene sconfitto, dove non possono esserci prevaricazione o imposizione, ma accordo condiviso.

L’espressione ciò che andrebbe fatto, fa riferimento alla responsabilizzazione dei pazienti, all’applicazione di principi razionali, all’esercizio delle più avanzate e controllate conoscenze scientifiche. Si affrontano e subiscono pressioni da parte di agenzie esterne alla medicina generale; il mercato dei farmaci, degli esami di laboratorio, delle visite specialistiche, delle informazioni ingannevoli, la spinta consumistica, i preconcetti del pubblico, complice la riduzione delle risorse del Welfare, le attese sproporzionate della popolazione e la crisi economico-sociale.

Gli ammalati tendono a sopravvalutare i benefici e a sottovalutare i rischi associati alle attività dell’apparato sanitario.

Ciò che andrebbe fatto dovrebbe comprendere la capacità di contrastare l’evoluzione mercantile della medicina senza soccombervi o assecondarla. In un clima inquieto e sinistro come quello attuale, si devono usare quel giudizio e quel controllo critico che appartengono alla personalità e all’esperienza del curante, pur facendo riferimento a protocolli standardizzati. Ciò che andrebbe fatto è il mantenimento di un tono professionale elevato per resistere a tutte le pressioni cui si viene sottoposti, per non cedere senza condizioni alle richieste incongrue di chicchessia.

Chiunque inizi questa attività deve sapersi accontentare di vittorie parziali in battaglie quotidiane e di trascorrere molti anni ondeggiando tra orgoglio, colpa e vergogna.

Si deve sopportare il senso di inutilità e ignoranza, impotenza e sottomissione che a volte pervade l’intera giornata. Qualcuno potrebbe reagire con arroganza, ma è invece necessario sostenere e accrescere la fierezza della propria conoscenza di uomini e cose, utilizzare il proprio armamentario emozionale, relazionale e tecnico, conservare il massimo rigore possibile senza abbassarsi al livello di venditore per mantenere alto lo scopo del proprio compito.

Giudizio franco, ironia, rigore, sono possibili strumenti per combattere la deriva tecnocratico-commerciale di gran parte del mondo medico. La pratica clinica rischia di rimanere subordinata alle ragioni della cultura aziendalistica. Ci si trova schiacciati tra l’esigenza di ridurre le spese e incrementare la burocrazia, i bisogni della gente, la concorrenza della medicina commerciale-estetica, di fronte alle quali si resta come una Cenerentola senza scarpetta, con un ruolo sociale eroso dalle numerose sottoculture del senso comune.

Descritto in questo modo il generalista sembra un naufrago su un’isola deserta; sotto molti aspetti l’immagine non è lontana dalla realtà. Il senso di solitudine e di abbandono che a volte accompagna questa attività può essere vinto attraverso lo studio, la ricerca e un’alleanza terapeutica onesta e aperta con il paziente.

 

Si combatte per l’empowerment

Incrementare il compito educazionale della MG è una sfida faticosa ma estremamente pregnante; è necessario non perdere coraggio, non abbassare la guardia, non rinunciare al dovere di sapere cosa è legittimo e cosa scorretto. Quella della responsabilizzazione dell’assistito è un vecchio tema mai del tutto abbandonato. Le velleità didattiche dei medici si scontrano con la mole di informazioni che vengono fornite quotidianamente al pubblico laico. Il compito è estremamente arduo: ciascuno vorrebbe direttive plasmate sulle proprie apprensioni, vorrebbe indagini ripetute ad ogni piè sospinto come pratiche rassicuranti.

Molta parte del pubblico è convinto che quello sia l’autentico progresso della scienza medica per vivere più a lungo. Uno degli improbi compiti del generalista è quello di indurre gli utenti a un equilibrato rapporto con le risorse disponibili, con un concetto di salute che non si limiti all’estetica o a un benessere formale.

Riuscire ad essere prudenti e a non eccedere con la prescrizione di indagini, non sottovalutare i sintomi preoccupandosi allo stesso tempo di non sprecare risorse economiche è un dilemma di ogni giorno.

L’enfasi sulla prevenzione, su una diagnosi precoce tutta incentrata sull’esecuzione di indagini strumentali, sull’invenzione continua di nuove patologie, è la logica alla quale quotidianamente ci si deve opporre attraverso una pratica sobria, attenta alla persona, basata sull’analisi delle prove scientifiche e sull’empowerment del paziente. Lo scopo è quello di ridurre le diseguaglianze di salute, fornire ai pazienti strumenti critici per prendere le decisioni migliori per il proprio benessere, promuovere politiche rispettose degli obiettivi di salute.

Si può utilizzare con orgoglio il tradizionale strumento dell’ascolto, offrendo tempo al paziente, rendendosi disponibili a prendere in considerazione con serietà qualunque cambiamento dei sintomi. Abbandonate la supponenza, la presunzione o la superiorità, si può interagire con modestia e sollecitudine fino a confezionare su misura un’indagine clinica basata su una relazione salda.

Colloquio, osservazione e visita sono guide affidabili per decidere di approfondire o interrompere una richiesta insistente senza sottovalutare i fatti. A questi tre strumenti si affiancano la conoscenza storica del soggetto, del suo contesto, le reazioni istintive (gut feeling) e le regole empiriche (rules of thumb) usate dai clinici, che in alcuni casi esercitano un ruolo fondamentale nella metodologia diagnostica tipica della Medicina Generale.

I colleghi più giovani hanno acquisito maggiore capacità di farsi rispettare a confronto con le precedenti generazioni. Sono più consapevoli del loro ruolo, più fieri, meno sottomessi, anche se devono continuare a farsi spazio in una struttura organizzativa in cui non hanno ancora una collocazione salda, al di là dei proclami politico-sindacali. La dignità, che non ha prezzo, è parte integrante della nobiltà della medicina generale, purché ci si mantenga aderenti alle evidenze scientifiche e ad una pratica professionale rispettabile.

 

Pregiudizi, incertezza, decisione.

Numerosi sono i fattori contro cui è necessario essere costantemente vigili e concentrati. Uno di questi è il pregiudizio che il paziente non abbia niente di serio. Come è noto, il generalista deve occuparsi delle patologie al loro esordio, quando le indicazioni sono sfumate e poco definite. E’ facile e frequente, esasperati da molteplici richieste sproporzionate, liquidare pregiudizialmente i sintomi come inconsistenti o frutto di ansie marginali.

Gli insistenti inviti aziendali al risparmio delle risorse devono fare i conti con lo scrupolo e la necessità di diagnosi e cura, esponendo al rischio di sovrastimare o sminuire la portata del problema. Ci si trova costantemente tra l’incudine di una doverosa diagnosi accurata, e il martello di una procedura superflua e dispendiosa. Sembra di essere fuori posto, soprattutto quando ci si confronta con gli specialisti che possono usufruire di strumenti tecnologici immediati. Ci sono giorni in cui sembra di sbagliare qualunque decisione si prenda e in cui ci si sente incapaci e ignoranti.

La sicurezza in Medicina Generale è sempre illusoria e momentanea; non è facile imparare a convivere professionalmente con la dimensione dell’incertezza.

Nel quotidiano si deve contenere l’ansia connessa al dubbio; un’ansia che proviene dalla responsabilità del ruolo, da deleghe a volte poco chiare, dai confini sociali, dai vincoli e dai rischi legati alla presa di decisione.

Accanto a una norma tipicamente razionale, nella medicina generale è necessario servirsi di modalità di pensiero che permettano di sopportare l’assenza di chiarezza, così frequente nell’incontro clinico. E’ necessario riflettere mentre si dirada la nebbia. A volte si tratta di una caligine che non si dirada in fretta; di fronte a questo fenomeno è necessario immergervisi, fermarsi senza affanno, in attesa che nuove riflessioni e nuove ipotesi favoriscano l’emergere di un’idea esplicativa.

Neppure l’esperienza accumulata in decenni di lavoro può dare una sicumera granitica. La mente del clinico va lasciata aperta all’imprevisto, all’eventualità più remota, al non consueto. Il ragionamento clinico, la scelta, la decisione finale si prende attraverso quel processo chiamato da Damasio “Marcatore somatico”, che prevede una stretta relazione tra emozione e cognizione3.

E’ necessario mantenere nei confronti delle proprie abilità un costante atteggiamento critico che permetta di domandarsi dove sta l’inaspettato, il trucco, il malinteso, il pregiudizio.

Occorre usare punti di vista svariati, muoversi attorno al paziente come con una telecamera che ne catturi le diverse angolazioni utilizzando diverse focali: quella della soluzione manualistica, quella dell’enfasi sul sintomo soggettivo, quella più attenta all’espressione verbale del malessere, quella della clinica tradizionale, quella dell’emotività, quella della narrazione, quella della soluzione creativa. Ciò che va individuato è la relazione tra i diversi aspetti con cui la malattia viene avvertita dal soggetto: sociale, biologico, soggettivo, interocettivo, emotivo. Il rinvenimento di tale relazione permette di comprendere come l’infermità stia colpendo quella persona e quale sia la cura più adatta.

 

Fiducia e conflitti

La relazione medico-paziente è un’esperienza fluttuante, in cui la certezza va conquistata volta per volta e non è scontata in ogni circostanza, che va di pari passo con una elastica e costante rifondazione: la fiducia e la sfiducia si offrono e si tolgono in un attimo. Non sono date definitivamente, ma vengono concesse o ritirate a seconda delle situazioni, del comportamento e dello stato d’animo del paziente e del curante.

Allo scopo di mantenere la fiducia, alcuni scelgono un atteggiamento di sicurezza inamovibile, mentre altri coltivano fiducia e sicurezza attraverso il coinvolgimento del paziente nelle situazioni problematiche, rendendolo partecipe delle scelte. C’è quello che vuole un terapeuta che dia una risposta immediata e inconfutabile come segno di capacità, mentre altri preferiscono partecipare alle riflessioni di chi cura.

Non si sta incoraggiando il dubbio eretto a sistema, ma la aperta necessità di pensare sottoponendo a critica le proprie scelte. Spesso tale processo deve avvenire in minuti o in secondi. A volte, durante la visita ci si ferma a riflettere. Alcuni non possono tollerare che al clinico scarseggino tutte le risposte, pronte e preconfezionate, mentre altri apprezzano proprio il fatto che il professionista mediti e compia scelte adattate alla persona che gli sta di fronte.

Ogni medico sa che non sempre le aspettative dell’assistito devono essere soddisfatte, a costo di aprire una controversia, un confronto di opinioni, un diniego a richieste incongrue. E’ auspicabile che curante e paziente continuino a lavorare insieme anche in una situazione conflittuale; è necessario operare una trasformazione del conflitto rendendolo funzionale ad un miglioramento della relazione e quindi della salute.

Le dolorose oscillazioni che avvengono nel corso di una lunga relazione clinica, espongono il medico a sentimenti opposti e variegati, che vanno dall’odio al sincero rispetto e non c’è motivo di pensare che anche da parte del malato non vi sia una simile gamma di emozioni nei confronti del curante.

Si stanno descrivendo quotidiane turbolenze che vanno affrontate per tempi molto lunghi. Il piccolo medico combatte dalla sua postazione contro i grandi proclami del mercato della salute; ogni giorno nel dialogo con il paziente si devono confutare affermazioni poco chiare o francamente ingannevoli, ci si oppone a tutto ciò che di mercantile viene gabellato come indispensabile al benessere della persona.

E’ compito del clinico ridimensionare certe aspettative irrealistiche sempre più diffuse. Come ricordava Richard Smith nel 1999, la morte è inevitabile, molte malattie importanti non possono essere guarite, gli antibiotici non servono per l’influenza, gli ospedali possono diventare luoghi pericolosi, tutti i farmaci hanno anche effetti collaterali; non tutti i trattamenti medici danno benefici stabili, gli screening producono anche falsi positivi e falsi negativi, oltre ad altri effetti non desiderati.

E che dire dei rapporti con i colleghi specialisti, con i quali si oscilla costantemente tra collaborazione e subalternità? Da una posizione storica gerarchicamente inferiore, il generalista delle ultime generazioni cerca di sollevarsi per ritrovare la rispettabilità dovuta alla sua funzione, ma nei rapporti di colleganza si rischia di essere meri esecutori di ordini ricevuti da altri. Si pone quindi il problema se mantenere un’autonomia di giudizio e assumersene la responsabilità, oppure obbedire supinamente delegando le decisioni. Valutare criticamente le scelte specialistiche può rinsaldare il rapporto con il paziente, ma può, al contrario, interromperlo fino alla frattura. L’impostazione generale del rapporto con il malato deve da subito mettere in chiaro quale livello di autonomia e quale livello di alleanza terapeutica si vorrà mantenere.

In tempi e in un paese in cui i fondamenti della scienza vengono messi in discussione o vengono considerati pericolosi (si veda la campagna contro le vaccinazioni), i medici generali devono proporsi come coloro che sostengono il sapere, opponendosi alla cultura antiscientifica che oggi più che mai riprende spazio nella mente delle persone.

E’ una guerra impari, che rischia di provocare disaffezione verso la professione, ripercussioni personali di un’attività nel corso della quale si viene frequentemente declassati, sottovalutati, umiliati dal confronto e dallo scontro con l’assistito, con i colleghi, con l’istituzione, con il proprio ideale irraggiungibile, con le speranze giovanili che di frequente vengono ridimensionate o deluse. Di qui la necessità della manutenzione del ruolo curante, di prendersi cura di sé e accettare di aver bisogno di sostegno per evitare stress lavoro correlato, manifestazioni psicosomatiche, uso di sedativi, alcool e sostanze, incidenti ed errori, assenteismo, conflitti cronici e comportamenti antisociali o violenti, mobbing, burnout4.

 

Alleanza di cura ed esame clinico

Per mantenere salda l’alleanza e la collaborazione con il paziente si devono sfruttare consapevolmente le capacità terapeutiche dell’atto medico, della prescrizione, del gesto, del rito.

E’ necessario trovare un giusto equilibrio tra parità, paternalismo, collaborazione, condivisione e professionalità.

L’attenzione e l’ascolto devono essere massimi e autentici dal primo momento.

Il paziente, quando non è in malafede, crede di dover enfatizzare i suoi sintomi per ottenere ascolto dal medico; non solo comunica malesseri emotivi attraverso manifestazioni fisiche, ma accentua i sintomi per paura di non essere preso sul serio.

Ogni movenza, ogni sguardo significano qualcosa, anche se l’invadenza degli strumenti informatici rischia di limitare lo scambio mimico e gestuale. Lo schermo del PC attira lo sguardo del medico più di quanto non facciano gli occhi del malato; si frappone tra i due; il rumore della tastiera fa da colonna sonora di ogni visita. La comunicazione rischia di venire snaturata e alterata dal convitato di pietra.

Il paziente non ha mai smesso di aver bisogno di essere preso sul serio, di essere assistito durante la descrizione dei suoi fastidi irripetibili e individuali. Il suo grado di benessere è direttamente proporzionale al grado di attenzione che ha ricevuto: è determinato dall’ascolto attento, da un’interlocuzione discreta, dalla capacità di interromperlo con garbo quando eccede nell’invadere spazio e tempo.

L’empatia (di cui tanto si parla e di cui si sottolinea la necessità come fosse un ingrediente che scatta automaticamente ad ogni incontro clinico) ha solide basi biologiche: è una risonanza affettiva non automatica, modulata da fattori di contesto, cognitivi, sociali e interpersonali. E’ un’attività neurale in risposta al dolore altrui, modulata da processi cognitivi e motivazionali che influenzano il comportamento di aiuto. La risposta empatica interessa il circuito mirror e le regioni coinvolte nei processi di mentalizzazione5.

Esistono correlati fisiologici di reciproci pattern di comportamento sincroni e autonomici tra madre e bambino, tra marito e moglie, tra terapeuta e paziente durante una psicoterapia, tra medico e malato durante una visita clinica o un colloquio coinvolgente.

Questi momenti di affetti condivisi sono stati soprannominati “connessioni”6. Stimolare il paziente ad esprimere le sue preoccupazioni può favorire una migliore regolazione dei processi emozionali nel cervello e un sollievo dallo stress, confermato anche da prove sperimentali. Il medico che presta un ascolto attento e rispettoso rafforza il processo di guarigione e contribuisce a migliorare il risultato della sua azione7.

Tuttavia, ascolto e clinica, tipici strumenti della medicina generale, sono in crisi. Ci sono situazioni in cui a tutti passa per la mente che la visita è diventata un inutile e faticoso orpello.

La tendenza a non visitare va di pari passo con la tendenza ad ammutolire il paziente. Come se il messaggio (a volte esplicito) fosse: “Taci e lasciami lavorare. Posso fare a meno dei tuoi sintomi e della tua voce. La tua opinione è irrilevante, le tue impressioni superate dai fatti fornitimi dalla tecnologia”.

La tentazione di restare seduti e prescrivere esami è forte, così come è forte la voglia di valutare la situazione leggendo i referti o guardando le meraviglie della diagnostica per immagini sullo schermo del computer invece di aver visitato la persona.

Alzarsi dalla sedia e invitare l’assistito a stendersi sul lettino viene quasi considerata una superflua attività, superata dalla potenza degli strumenti. Eppure, la semeiotica resta fondamento della medicina. Anche quando si ha la netta impressione che la tecnologia potrebbe fare di più e che le manovre semeiologiche o i segni clinici rappresentano una perdita di tempo, è necessario esaminare il paziente.

Il significato cercato attraverso l’esame obbiettivo va al di là della sua utilità diagnostica: costituisce un legame, un ponte tra curante e malato ed instaura un rapporto che facilita la guarigione e la salute.

La visita va considerata anche sotto il profilo simbolico; il paziente viene esaminato anche tramite il tatto, attraverso l’accoglimento del corpo.

E’ un cerimoniale dal significato curativo che favorisce il recupero della salute, costituendo il primo passo che porta dalla malattia alla ripresa. Il concetto di esperienza incarnata (Embodiment), che si manifesta anche attraverso il contatto fisico nel corso dell’esame clinico, aiuta a capire come la malattia e il dolore siano esperienze soggettive legata alla situazione, all’etnia, al genere, allo stato socioeconomico8.

L’esame fisico è un rituale che fa bene sia al medico che al paziente: il primo sa di svolgere una funzione fondamentale attraverso l’esercizio dei suoi cinque sensi e del suo spirito di osservazione, il secondo si sente preso in carico, accudito, accompagnato9. Il rito della visita avvicina il medico agli aspetti più tradizionali e irrinunciabili di una professione ormai satura di dispositivi tecnologici, ma povera di fattori emozionali, riducendo il rischio di burnout e disaffezione10.

La visita clinica rientra inoltre a pieno titolo nelle procedure placebo, che innescano meccanismi biochimici, modulano i processi da cui dipendono i sintomi e rafforzano la relazione con il medico. Il paziente intero, corpo e mente, ritorna ad essere il centro dell’attenzione, che negli anni recenti è stata spostata alle immagini, alle scansioni, ai referti degli esami di laboratorio.

 

Misera sofferenza e nobile entusiasmo

Una cosa è certa: la relazione di cura è complessa, carica di implicazioni emotive non sempre esplicite e razionalmente evidenti.

Gli operatori della salute devono farsi coinvolgere nella relazione clinica trasformandosi da tecnici in persone e da esperti in facilitatori, acquisendo maggiore sensibilità verso i bisogni dei clienti e maggiore capacità di comprendere e affrontare le ansietà che circolano tra medico e paziente.

Per non soffrire troppo il paziente, bisogna acquisire la capacità di maneggiare con serenità il dolore, la rabbia, la disillusione insite nella relazione di cura e chiedersi quale stato d’animo trasmetta il paziente (“Come mi fa sentire questo paziente?”).

Ci sono colleghi che pensano di occupare un posto importante nella vita dei loro assistiti, a volte venendone delusi, mentre altri si difendono dalla sofferenza prendendo le distanze da qualunque coinvolgimento emotivo, perfino attraverso meccanismi difensivi che hanno a che fare con l’odio, la vendetta, il distacco.

Meglio la modestia che l’arroganza, il dubbio piuttosto che le convinzioni onniscienti e difensive, in un processo continuo di riaggiustamento e riassestamento della certezza.

Per raggiungere e mantenere questo modello è necessaria la creazione di un registro più vario di tattiche e stili personali adattabili ai diversi pazienti, anziché l’uso difensivo di schematismi rigidi e immutabili. A questo scopo i protocolli e le linee guida sono inservibili.

Bisogna essere disponibili ad apprendere dall’esperienza e impegnarsi senza sosta ad applicare al singolo individuo una metodologia clinica adattiva aperta ad una prospettiva di tipo relazionale.

Modestia e miseria non sono sinonimi. Si può essere modesti senza essere miseri e senza essere sciatti. Si può essere medici nobili senza altezzosità, con la personalità di chi vuole elevarsi alla ricchezza della cultura, dell’ascolto e del rispetto verso gli altri. E’ nobile il medico che è in grado di dare il giusto valore alla ricerca e al possesso del sapere.

Si può fare una buona medicina generale vivendo e tollerando con modestia la miseria del quotidiano e osservando con curiosità non giudicante i comportamenti irrazionali dei pazienti. E’ vitale mantenere attivo l’entusiasmo legato al faticoso piacere della conoscenza di personalità uniche, contesti originali, emozioni irripetibili.

 

 

BIBLIOGRAFIA

  1. Baird B et al. Understanding pressures in general practice. London. King’s Fund. 2016
  2. Cataldi G: comunicazione personale
  3. Damasio A. The Somatic Marker Hypothesis and the Possible Functions of the Prefrontal Cortex. Phil. Trans. R. Soc. Lond. B (1996) 351, 1
  4. Perini M. I gruppi Balint nella formazione del medico. https://www.ilnodogroup.it/it/aree-attivita-3/metodo-di-lavoro/gruppi-balint
  5. Bernhardt B C. , Singer T. The Neural Basis of Empathy. Annu. Rev. Neurosci. 2012. 35:1–23
  6. Finset A. ‘‘I am worried, Doctor!’’ Emotions in the doctor–patient relationship. Patient Education and Counseling. 88 (2012) 359–363
  7. Jensen KB, Petrovic P, Kerr CE, Kaptchuk TJ et al. Sharing pain and relief: neural correlates of physicians during treatment of patients. Molecular Psychiatry (2013), 1–7
  8. Schaefer M, Heinze HJ, Rotte M. Embodied empathy for tactile events: Interindividual differences and vicarious somatosensory responses during touch observation. Neuro Image 60 (2012) 952–957
  9. Costanzo C, Verghese A. The Physical Examination as Ritual. Social Sciences and Embodiment in the Context of the Physical Examination. Med Clin N Am 102 (2018) 425–431
  10. Thirioux B, Birault F., Jaafari N. Empathy Is a Protective Factor of Burnout in Physicians: New Neuro Phenomenological Hypotheses Regarding Empathy and Sympathy in Care Relationship. Frontiers in Psychology.vol 7 May 2016

 

 

 

 

 

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