Se avessimo bisogno di un modello di cure primarie di tipo “comprehensive”? Nasce la campagna “2018: “primary health care now or never”
Martino Ardigò1,2,3, Bontempo Scavo Sara1,2, Agostino Panajia1
1 Campagna “2018 Primary Health Care Now or Never”; 2 Centro Studi Internazionali e Interculturale (CSI); 3 Universidade federale de Mato Grosso do Sul
ABSTRACT
Il contesto attuale, caratterizzato da una transizione demografica, epidemiologica e sociale, pone i sistemi sanitari, specie dei paesi occidentale, in una condizione di crisi strutturale. Si rende indispensabile un cambio di paradigma, da un modello adatto alla gestione delle patologie acute a un modello basato sul contrasto alle patologie croniche basato su una prospettiva assistenziale di tipo longitudinale.
L’articolo si sofferma ad analizzare come tale cambiamento di paradigma comporti differenze profonde sul piano delle pratiche assistenziali, a cominciare dalla necessità di intervenire non solo sulla dimensione curativa, ma anche promotiva e preventiva. Il modello strettamente biomedico risulta, infatti, riduttivo e insufficiente, confinando il paziente alla sua dimensione di corpo passivo anziché a quello di persona quale soggetto attivo del processo di cura, immerso in una rete significativa di relazioni, valori, credenze e desideri che ne condizionano l’agire determinando, spesso in maniera rilevante, la condizione di salute. Occorre pertanto un nuovo modello di assistenza, capace di intervenire non solo sulla dimensione biologica delle malattie, ma di sviluppare un livello di complessità comprensivo (“comprehensive” come definito dalla letteratura anglosassone) delle dimensioni simboliche e culturali del vissuto delle persone, delle dimensioni soggettiva e sociale della malattia, nonché dei fattori sociali ed economici, che intervengono nel determinare la condizione di salute delle persone e delle comunità.
L’articolo si sofferma, inoltre, a sottolineare come un approccio che ignori tali determinanti di salute rende i sistemi sanitari generatori di diseguaglianze, allocando risorse laddove i bisogni di salute sono più facili da risolvere e non dove invece vi è un maggior bisogno.
Nonostante esista una convergenza internazionale, a iniziare dai documenti licenziati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, sulla necessità di adottare un modello di cure primarie di tipo comprensivo, a oggi il cambio di paradigma rimane in gran parte inattuato. Allo scopo di promuovere un modello di Comprehensive Primary Health Care, è nata in Italia una campagna che riprendendo il documento dell’OMS “2008 Primary Health Care: Now More Than Ever) è stata chiamata “2018 Primary Health Care: Now or Never”.
PAROLE CHIAVE
Cure Primarie, Cronicità, Sostenibilità dei sistemi sanitari
Il nuovo contesto e la necessità di un nuovo paradigma assistenziale
Come ampiamente riportato in letteratura, è in atto su scala globale un processo di transizione epidemiologica e demografica. In questo articolo tenteremo di analizzare sommariamente le ricadute dal punto di vista sanitario, nel contesto Italiano e più in generale nei paesi ad alto reddito.
Il punto di partenza della nostra analisi è la constatazione che l’invecchiamento della popolazione1, la denatalità, la crisi economica e i successi nella lotta alle malattie acute ci hanno consegnato un contesto in cui l’incidenza delle patologie croniche è andata progressivamente aumentando fino a raggiungere livelli molto rilevanti. In Italia l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) stima che circa il 92% dei decessi sia imputabile a malattie non trasmissibili2.
In questo scenario i servizi sanitari necessitano di una riorganizzazione profonda in termini di percorsi assistenziali, modalità di lavoro, relazioni tra professioni e tra diversi settori3.
Le ragioni di una così drastica trasformazione risiedono nella natura stessa delle patologie croniche e delle strategie per il loro contrasto. Il contrasto delle patologie croniche si caratterizza, infatti, per una significativa dipendenza da interventi di promozione della salute, di prevenzione e dall’insufficienza delle sole strategie di tipo curativo4. Interventi che devono essere centrati sulla persona e non sulla patologia e sviluppati attraverso reti socio-sanitarie orizzontali, in collaborazione con altri settori della società, con i pazienti stessi e le loro famiglie5.
La transizione da uno scenario ad alta prevalenza di condizioni acute a uno ad alta prevalenza di condizioni croniche comporta un profondo cambiamento di paradigma per la medicina e per l’organizzazione dei servizi6.
Dal momento che le patologie croniche non possono essere guarite, le attività assistenziali, salvo il trattamento delle fasi di riacutizzazione, sono sempre più dirette alla prevenzione dell’insorgenza delle condizioni di cronicità e della loro progressione verso condizioni più severe e invalidanti. Infatti, il trattamento dei pazienti affetti da patologie croniche non risolve il problema della loro insorgenza. Al contrario, in uno scenario demografico dove l’aspettativa di vita è alta, il trattamento della patologia cronica è in grado di ritardare l’esito della patologia ma non di ridare salute al paziente. In altre parole il trattamento è in grado di aggiungere anni di vita, ma non anni di vita in salute. Il risultato è che il paziente può vivere una frazione considerevole della sua vita nella condizione di malato, con un impatto negativo sia sulla qualità di vita ma anche sulla sostenibilità dei sistemi sanitari7.
Occorre pertanto sviluppare un sistema di assistenza capace di contrastare in modo efficace l’incremento progressivo della prevalenza di patologie croniche, agendo contemporaneamente sulle dimensioni della promozione della salute e della prevenzione, attraverso una presa in carico longitudinale della persona in una prospettiva “life-long”8.
L’alta prevalenza di patologie croniche ed effetti sulla pratica clinica
Il contrasto alle patologie croniche non va limitato alla fase clinica ma, in una prospettiva longitudinale, deve avere inizio fin dalle prime fasi delle gravidanza se non ancora prima del concepimento, con interventi diretti ai genitori. Nei pazienti giovani, in assenza di particolari condizioni predisponenti o di esposizione a specifici fattori di rischio, le attività di contrasto saranno principalmente incentrate su azioni di promozione della salute e di prevenzione primaria; al crescere dell’età saranno incrementate le azioni di prevenzione verso fattori specifici, così come le attività di prevenzione secondaria; con l’instaurarsi delle condizioni di cronicità, invece, le terapie assumeranno un valore di prevenzione terziaria, dal momento che saranno dirette al controllo della progressione della patologia fino a gradi maggiori di severità e soprattutto alla prevenzione dell’invalidità e della perdita di autonomia dei pazienti.
Le differenze rispetto a un contesto ad alta incidenza di patologie acute sono molteplici.
Un elemento interessante che deve essere considerato è come il trattamento delle patologie croniche differisca da quello delle malattie acute in termini di tempo di esposizione del paziente al servizio sanitario e alle cure mediche. Nel caso di un ricovero ospedaliero, per esempio, i servizi sono a contatto diretto con i pazienti per una percentuale di tempo molto alta, che può arrivare a essere prossima al 100% nei reparti ad alta intensità di cura. Già nel caso di patologie acute che richiedono intensità di cura minore, il tempo di prossimità tra il sistema dei servizi sanitari ed il paziente si riduce drasticamente. In questo caso la terapia vera e propria è generalmente auto somministrata dal paziente o da un soggetto a lui prossimo. Se il paziente non è in grado di seguire la terapia in maniera corretta il successo terapeutico può essere raggiunto aumentando l’intensità delle cure ed il tempo di prossimità tra servizi e paziente, fino, appunto, all’ospedalizzazione.
Il ricorso a livelli di cura sempre più intensi, però, risulta inutile se non addirittura dannoso nel caso delle patologie croniche.
Come detto, il contrasto delle patologie croniche non avviene in tempi limitati, come accade per il trattamento delle patologie acute, ma può arrivare a coincidere con l’arco dell’intera esistenza del soggetto. In aggiunta, il numero di servizi e di settori chiamati in causa è molto maggiore e ciascuno di essi deve poter conoscere e coordinarsi con le attività previste dagli altri9.
Per quanto riguarda i tempi di interazione tra paziente e servizio, dal momento che il contrasto alle malattie croniche deve essere protratto per tutta la vita, la centralità dei processi di cura sta nei pazienti e nelle loro reti di relazioni significative. Al contrario delle patologie acute, nelle patologie croniche se il paziente non è d’accordo con le strategie terapeutiche proposte, o non è in grado di eseguirle, è estremamente complesso controllare il decorso della malattia. Il conseguente aggravio delle condizioni biologiche richiederà l’intervento di un livello di intensità di cura maggiore, capace di controllare la riacutizzazione, ma senza sostanziali benefici in termini di controllo della condizione di cronicità. E’ per questo che i pazienti cronici non complianti vanno incontro ad una più rapida progressione di malattia e diventano più rapidamente forti consumatori di servizi ad alta intensità di cura. Nelle patologie croniche, infatti, il livello terziario, che rappresenta l’ultimo livello in termini di intensità, rischia di divenire il principale erogatore delle cure, con un aumento della spesa sanitaria, una riduzione della qualità della vita dei pazienti e senza sostanziali benefici in termini di decorso della patologia10.
Paradossalmente, uno degli ostacoli fondamentali al superamento del modello per acuti è rappresentato dalla stessa biomedicina. Non bisogna trascurare il fatto che la biomedicina ha avuto il suo principale sviluppo proprio in ambiente ospedaliero, dove le dimensioni individuali e sociali della malattia acuta sono meno rilevanti11. Per questo motivo le percezioni dei soggetti ed i determinanti sociali di salute12 sono scarsamente indagati e le loro ripercussioni in termini di efficacia terapeutica non adeguatamente integrate nei protocolli assistenziali. Per il clinico le dimensioni percettive e sociali della malattia rappresentano un problema, dal momento che, nel contesto per acuti e monospecialistico, la centralità dei processi di cura risiede nel corpo e non nel paziente come individuo e soggetto sociale; gli interventi “clinici” sono generalmente limitati nel tempo ed il sistema può concentrarsi sugli aspetti biologici della patologia. Le dimensioni percettive e sociali della patologia rappresentano variabili non controllate e come tali interferiscono nella relazione tra biomedicina e patologia.
Un altro elemento da considerare è quello dell’autorità terapeutica e della partecipazione del paziente al processo terapeutico. Nel paradigma per acuti il paziente è più facilmente in grado di correlare un evento del quotidiano alla malattia e riconoscere così di essere malato. Nel momento in cui si rivolge al sistema sanitario, ha compreso, più o meno consapevolmente, di aver bisogno di aiuto ed ha trasferito al sistema dei servizi l’autorità terapeutica necessaria a poter intraprendere il percorso di cura. Al contrario, nel contesto delle patologie croniche, questo processo non è scontato13 14. Nel caso, per esempio, di un paziente con importanti fattori di rischio, benché la probabilità di sviluppare una patologia cronica sia concreta, questi può non percepire tali fattori come elementi significativi tali da spingerlo ad entrare in contatto con il servizio sanitario. Non necessariamente, infatti, una persona con un cattivo stile di vita è consapevole dei rischi a cui si espone; inoltre può considerare la qualità della sua vita soddisfacente e non percepire la necessità di cambiarla. La qualità della vita degli individui è soggettiva e dipende dalle dimensioni simboliche e culturali che gli sono proprie, dai vissuti, dalle narrazioni (illiness) e dalle dimensioni sociali della malattia (sickness)15, che possono o no coincidere con la patologia organica così come è descritta dalla medicina (disease)16. Se la dimensione disease, come detto, è spesso centrale nella patologia acuta, nel paziente con una condizione cronica e, ancor più, nella persona sana ma con fattori di rischio, illness e sickness sono preminenti. Pertanto, in un modello per acuti il nostro paziente corre il rischio di essere intercettato dai servizi solo al momento dell’insorgenza di una sintomatologia.
Anche nel caso che, nell’incontro con i servizi, il paziente sia stato informato degli effetti sulla salute del suo stile di vita e dei comportamenti da seguire, oltre che di eventuali percorsi diagnostici e terapeutici necessari, l’aderenza alle prescrizioni dipende dalla volontà e dalla capacità del paziente di seguirle. In un sistema tarato sugli acuti, se il paziente non vuole o non è in grado di seguire le indicazioni comportamentali e/o il percorso diagnostico terapeutico, o non si presenta ai servizi, i servizi stessi non possiedono le funzioni e i professionisti deputati al contatto ed alla proattività con i pazienti. Date queste condizioni esiste il rischio concreto che il successivo incontro con il paziente avvenga quando si realizzi un’ulteriore evoluzione della patologia.
A questo punto, se i fattori che hanno fino a questo punto impedito la compliance del paziente non vengono rimossi, non ci sono garanzie che questi sia in grado o d’accordo nel seguire ulteriori prescrizioni. Né si può fare affidamento sulla “paura di morire”, che il paziente dovrebbe presumibilmente sviluppare, quale elemento “magico”, all’aumento della severità del quadro clinico.
Il potenziale destino di questo paziente, dunque, è di sviluppare precocemente le complicanze della sua malattia, andando verso un progressivo deterioramento delle condizioni di salute.
Paradossalmente, attraverso l’approccio per acuti applicato alle patologie croniche i servizi sanitari sono in grado di intervenire in maniera efficace solo nelle fasi finali della malattia, quando il paziente necessita di ospedalizzazioni frequenti o di un trattamento in regime residenziale. Ma a questo punto il paziente ha ormai dilapidato il suo patrimonio di salute, la qualità della vita è scadente ed i costi assistenziali sono altissimi.
In definitiva, è possibile affermare che l’approccio e i comportamenti assistenziali propri delle patologie acute applicati alle cronicità rappresentano in sé un dispositivo per la produzione di ospedalizzazioni.
Patologie croniche “disease”, “illness” e “sickness”
Nel trattamento delle patologie croniche, dunque, si dovrebbe assistere a un vero e proprio processo di de-medicalizzazione della malattia, dal momento che nelle fasi precoci del percorso patogenetico non esiste ancora nessun danno biologico e le strategie di intervento sono prevalentemente promotivo-preventive. La promozione della salute e la prevenzione necessitano di un set di competenze e forme organizzative che divergono sostanzialmente da quelle richieste per la cura17. La promozione della salute e la prevenzione operano in scala popolazionale e spesso coinvolgono gli stessi soggetti in più programmi contemporaneamente (es.: ipertensione, diabete e tumore del seno). Come detto, promozione e prevenzione agiscono generalmente quando ancora non è presente alcun danno biologico e quindi nessuna percezione di malattia o di deterioramento della qualità della vita da parte dei soggetti. Senza il riconoscimento della malattia da parte degli individui non si innescano quei meccanismi di richiesta di intervento e delega dell’autorità terapeutica che sono indispensabili per generare compliance rispetto ai percorsi diagnostico terapeutici.
Nelle patologie croniche, invece, le prescrizioni in termini di stili di vita e le terapie stesse possono entrare in conflitto con i desideri e le aspettative dei soggetti, o rappresentare un ostacolo concreto al raggiungimento degli obiettivi di vita che gli individui stessi si sono prefissati.
Pertanto, il successo delle strategie di promozione, prevenzione e trattamento delle patologie croniche dipende solo limitatamente dalle conoscenze biomediche, dal momento che queste si riferiscono al corpo ed alla patologia ma non al significato che la malattia riveste per i soggetti e per il loro intorno di relazioni significative18. Le conoscenze biomediche, dunque, pur mantenendo la loro validità e correttezza in termini biologici, non sono in grado da sole di garantire la compliance dei pazienti. Quest’ultima dipende prevalentemente dal grado di comprensione, dalla volontà e capacità di seguire le prescrizioni. Il successo degli interventi sulle cronicità dipende, infatti, da fattori culturali, sociali, relazionali, politici ed economici non standardizzabili, ma specifici per ciascun paziente e dalla capacità di negoziare strategie di intervento che sappiano mediare tra le esigenze sanitaria e la qualità della vita percepita dai soggetti. In questo scenario epidemiologico, i servizi sanitari dovrebbero sviluppare le competenze necessarie a coinvolgere attivamente le persone e le loro reti di relazioni significative (engagement)19 20, fornendo loro gli strumenti atti a comprendere e gestire (mediante un’azione di empowerment2122) la storia di salute/malattia come biografia individuale e collettiva. Gli interventi sanitari così come la malattia rappresentano, per gli individui e per le loro comunità di riferimento, eventi che si iscrivono nella storia personale e collettiva modificando le traiettorie di vita, la posizione sociale, le reti di relazioni, l’autorità e l’autorevolezza. Per questo motivo sia l’intervento sanitario sia la malattia non possono essere circoscritti alle mere dimensioni mediche e i servizi sanitari devono essere in grado di salvaguardare la qualità di vita percepita e nei limiti del possibile non compromettere gli obiettivi di vita che individui e gruppi si sono dati.
In termini di compliance, infatti, è indispensabile che alle persone vengano fornite le conoscenze ed i mezzi necessari a decidere consapevolmente rispetto a come utilizzare il proprio patrimonio di salute in funzione della qualità di vita desiderata. Allo stesso tempo dovranno essere tenute in considerazione le risorse materiali e sociali necessarie a rispondere ai bisogni di salute ed a rendere possibile il cambiamento nello stile di vita.
Anche dal punto di vista strettamente terapeutico inoltre, bisogna comprendere come la definizione della terapia cronica differisca sostanzialmente da quella acuta. Nelle patologie acute, i bisogni di salute dei pazienti sono prevalentemente legati alle dimensioni organiche e le dimensioni percettive e sociali della malattia sono rapidamente risolte alla risoluzione della patologia stessa. Anche nelle patologie croniche esiste una correlazione più evidente tra le condizioni organiche (es.: pressione arteriosa, colesterolemia, ecc.) ed i fattori che le hanno generate e che rappresentano dei determinanti prossimali di salute. Questi fattori sono però strettamente correlati a dimensioni percettive e sociali, ovvero ai comportamenti e allo stile di vita del paziente (es.: fumo, sedentarietà, ecc.). In aggiunta, in una prospettiva longitudinale, oltre ai determinanti “prossimali” di salute, quelli immediatamente implicati nella generazione della malattia, bisogna tenere in considerazione in determinati “strutturali” ovvero i fattori culturali, sociali, economici e politici che possono influenzare o vincolare i comportamenti degli individui, delle comunità e quindi essere causa dei determinanti prossimali e quindi della malattia. Nel paradigma curativo vengono, però, generalmente considerati solo i fattori che possiedono una correlazione forte e diretta con un singolo o un ristretto gruppo di patologie, dal momento che è importante controllare direttamente le cause della patologia. In una prospettiva promotiva e preventiva life-long una tale semplificazione appare riduttiva perché le condizioni potenzialmente capaci di generare malattia o influenzare negativamente il livello di salute delle persone e della comunità sono spesso aspecifiche e debolmente correlate a singole patologie.
I determinanti di salute, sia quelli prossimali che quelli strutturali, non agiscono uniformemente su tutta la popolazione, ma producono effetti più gravi nei soggetti meno capaci di sottrarsi all’azione lesiva dei classici fattori di rischio per le malattie. In altre parole i determinanti producono un’azione differenziale sui soggetti più “vulnerabili”, ovvero meno capaci di difendersi dall’insorgenza delle malattie. Va sottolineato che la vulnerabilità non dipende soltanto dalle condizioni biologiche o sociali dell’individuo ovvero dalle sue “fragilità”, ma anche da quanto queste fragilità vengono o meno attivamente compensate da meccanismi di protezione sociale. Pertanto la malattia non è solo il risultato di una fragilità, quanto il risultato della mancata compensazione della fragilità.
I meccanismi alla base di tali processi sono complessi e chiamano in causa le risorse che le persone possiedono e la loro capacità di intervenire attivamente sulle proprie esistenze e indirizzarle verso un quotidiano di vita salutare, salvaguardando, nei limiti del possibile, benessere e qualità di vita percepita.
La promozione della salute e la prevenzione dunque sono direttamente correlate alla capacità di autodeterminazione degli individui, ovvero alla rimozione dei vincoli che impediscono ai soggetti, ai gruppi ed alle comunità di concorrere attivamente e consapevolmente alla produzione della loro salute.
Patologie croniche, equità ed interventi centrati sulla persona
Uno dei fattori centrali per la promozione della salute a livello di popolazione è dunque rappresentato dall’equità nell’allocazione delle risorse, proprio con lo scopo di compensare le fragilità di alcuni individui e contrastare la loro maggiore suscettibilità ai determinanti sociali di salute sia prossimali che strutturali. Compito dei Sistemi Sanitari, e più in generale del welfare, dovrebbe essere da un lato la valutazione dei bisogni di salute intesi in senso ampio (“comprensivo” o “comprehensive”) biologico, percettivo e sociale, e dall’altro allocare le risorse laddove il carico dei bisogni è maggiore e non, invece, dove i bisogni si adattano ai servizi offerti dal sistema sanitario. In altre parole, una mancata valutazione comprensiva di tutti i bisogni di salute, e non solo quelli routinariamente rilevati dai servizi, rischia di trasformare i Sistemi Sanitari in amplificatori delle diseguaglianze.
Per questo motivo gli orientamenti internazionali puntano sempre più a strategie assistenziali che mettono al centro degli interventi la persona e la sua famiglia o le sue reti di relazioni significative, le percezioni di salute, includendo la qualità dell’assistenza, il significato di guarigione e di efficacia degli interventi assistenziali insieme ai determinanti sociali di salute ed ai fattori implicati nella generazione delle disuguaglianze.
Questo approccio ha effetti positivi sulla terapia medica in senso stretto, che come vedremo nel contesto delle patologie croniche si basa su strategie differenti rispetto a quella per acuti. Dal punto di vista dell’erogazione delle cure, infatti, l’alta presenza di pazienti con comorbidità rappresenta un altro importante fattore che rafforza anche sul versante della terapia vera e propria la richiesta di interventi assistenziali in reti multi-servizio. La presenza di differenti patologie in diversi stadi evolutivi nello stesso paziente e nello stesso nucleo familiare richiede, infatti, l’intervento di diversi servizi e di diversi settori nello stesso tempo, rendendo obsoleta la gerarchia tra livello di assistenza primario, secondario e terziario vigente nel contesto per acuti. I pazienti affetti da cronicità richiedono frequentemente interventi in cui i differenti livelli operano in maniera orizzontale e, specialmente nel caso di interventi promotivi e preventivi, chiamano in causa altri attori (come quelli sociali, le scuole, i comuni, il privato sociale, ecc.) necessitando, dunque, del lavoro in reti intersettoriali che vedano la partecipazione della comunità.
Occorre quindi creare relazioni sinergiche anche tra attori tipicamente distanti dall’assistenza socio sanitaria, come la scuola, le associazioni di volontariato, le comunità religiose e più in generale tutte quelle realtà presenti nel territorio e facenti parte della comunità stessa, che possono agire in essa per promuovere processi che generino salute, nell’accezione più ampia in accordo con quanto definito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1948. Occorre, cioè, iniziare a sviluppare un modello di assistenza capace di promuovere e mettere in campo politiche intersettoriali che mettano a sistema tutte le risorse formali e informali della comunità e del territorio, per produrre ricadute locali che creino valori e beni collettivi.
Patologie croniche, sostenibilità e demografia
Va ancora sottolineato che, in un contesto di transizione demografica, l’inversione della piramide popolazionale produce la progressiva diminuzione della frazione di giovani e l’aumento di quella degli anziani, con un effetto netto sulla capacità di accudimento prodotta nelle reti parentali. Di fatto, con la diminuzione dei giovani e l’aumento degli anziani non autosufficienti le famiglie possiedono sempre meno risorse materiali e relazionali per garantire assistenza adeguata ai familiari. Inoltre, bisogna ricordare che il carico assistenziale richiesto alle famiglie può superare le risorse che le stesse possono mettere in campo, producendo effetti negativi su tutto il nucleo familiare. In questo senso andrebbero tenuti in considerazione due differenti determinanti di malattia: il sovraccarico fisico ed emotivo prodotto dall’accudimento; l’impatto economico sulla famiglia della malattia di uno o più dei suoi componenti. Più nello specifico, bisogna tenere in considerazione che in una rete familiare assottigliata, in cui le risorse per l’assistenza sono limitate, il carico assistenziale prodotto dalla malattia e dalla disabilità di un familiare può non ridistribuirsi in maniera equa, ma concentrarsi su pochi individui che, per ragioni di tempo, risorse cognitive, relazioni di potere interne alla famiglia o di status sociale, vengono sovraccaricati dai compiti assistenziali. Senza interventi esterni, questi carichi comportano un depauperamento delle risorse fisiche ed emotive dei care-giver e, rappresentando un fattore di rischio per la salute, paradossalmente favoriscono la comparsa e progressione delle patologie croniche. Un care-giver sovraccaricato può infine non essere in grado di svolgere in maniera competente e soddisfacente l’accudimento di altri soggetti fragili della famiglia, quali per esempio i minori, configurando così un rischio di malattia anche per coloro non direttamente coinvolti nell’assistenza.
Un ulteriore aspetto da tenere in considerazione è quello economico, dal momento che le risorse utilizzate per l’assistenza possono causare impoverimento di tutto il nucleo familiare ed un conflitto tra l’accudimento e il soddisfacimento dei bisogni del nucleo familiare. Questo processo è descritto in letteratura come health-poverty trap, ovvero l’effetto che la malattia ha in termini di diminuzione delle risorse per le famiglie e gli effetti dell’impoverimento nel generare malattia nel nucleo familiare, producendo un circolo vizioso malattia-povertà-malattia che può essere interrotto solo attraverso interventi mirati.
La health-poverty trap non colpisce soltanto i singoli nuclei familiari, ma rappresenta un problema per la sostenibilità dei sistemi sanitari dal momento che favorisce l’insorgenza precoce della patologia e il conseguente consumo di risorse. Dal punto di vista dei servizi, la complessità dei processi finora affrontati rappresenta un rischio concreto anche per i professionisti.
Le strategie tarate sulla singola malattia e la compartimentalizzazione degli interventi in un contesto a prevalenza di patologie croniche producono un carico assistenziale troppo gravoso per ogni singolo servizio e rappresentano un fattore di rischio per i professionisti oltre che per la comunità.
Quanto detto rafforza l’idea che sia necessario sviluppare servizi sanitari centrati sulla persona e sul nucleo familiare, integrati, proattivi, con un approccio intersettoriale e partecipativo come strumento di promozione della salute, della compliance alle terapie, per la riduzione degli accessi per cause evitabili al livello terziario di assistenza, in un sistema sanitario più equo ed efficiente che garantisca al contempo un livello accettabile di qualità di vita.
Da Alma Ata ad oggi: perché abbiamo bisogno di sistemi sanitari basati sulla Comprehensive Primary Health Care
Abbiamo bisogno di un sistema dei servizi e delle competenze professionali adatte al nuovo scenario. E’ necessario sviluppare servizi sanitari che siano centrati sulla persona e sul suo intorno di relazioni significative, che adotti una visione life-long, promotiva, preventiva e curativa, che sappia tenere in considerazione le dimensioni biologiche della malattia (disease) insieme a quelle individuali (illness) e sociali (sickness), che accompagni l’efficienza e la qualità della clinica ad interventi tarati sui determinanti sociali di salute che gravano su individui e comunità; un sistema di servizi proattivo capace di intercettare i bisogni di salute presenti, percepiti o meno dalla comunità, di interagire con le persone e le comunità nei luoghi dove questi vivono, lavorano, interagiscono; sviluppare la capacità di lavoro in rete, con l’obiettivo di intervenire in maniera integrata sui pazienti pluripatologici, attraverso azioni coordinate, multi-settoriali, orizzontali e partecipative.
Al centro di tale rete sono collocati i servizi di cure primarie, o più precisamente di Comprehensive Primary Health Care (C-PHC), nell’accezione della Dichiarazione di Alma Ata23, ovvero: una politica ed una strategia articolata pensata per migliorare lo stato di salute di tutta la popolazione, particolarmente attenta all’equità, che garantisca facile accesso ai servizi, con partecipazione delle comunità alle decisioni riguardanti la propria salute e alle attività sanitarie, enfasi su prevenzione e promozione della salute, tecnologie appropriate, integrazione dei servizi sanitari con altri settori, ad esempio la scuola, i trasporti, i lavori pubblici e sostenibilità degli interventi nel medio e lungo termine.
I servizi di C-PHC si candidano ad essere il fulcro dell’intero sistema sanitario dal momento che rappresentano il crocevia nella gestione dei pazienti e della salute della comunità. Le cure primarie nell’accezione della Primary Health Care sono il nodo che articola le attività preventivo promotive dirette alla comunità con le azioni di tipo curativo sviluppate all’interno del sistema secondario e terziario. Per via delle funzioni proattive e delle reti di relazioni con i territori, i servizi di C-PHC sono in grado di completare i dati quantitativi di tipo epidemiologico con informazioni sia quantitative che qualitative, raccolti attraverso le attività territoriali, contribuendo così alla definizione di un’epidemiologia più prossima ai bisogni di salute delle persone nel loro contesto quotidiano di vita. Ad una definizione più realistica dei bisogni di salute si accompagna una capacità di intervento tempestiva e puntuale, attraverso interventi integrati sociali e sanitari che prevedono la partecipazione della comunità, delle famiglie e degli stessi pazienti.
Il sistemi di C-PHC, riconoscendo le dimensioni sociali e materiali della malattia, sono in grado di contribuire concretamente al contrasto delle disuguaglianze in salute ed alla promozione dell’equità.
Un tale approccio è poi fondamentale anche per orientare dinamicamente la ricerca scientifica e la produzione di nuovi protocolli clinici tarati sulla persona e non sulla patologia.
Uno dei documenti riconosciuti come fondamentali da questo punto di vista è la Dichiarazione di Alma Ata che già nel 1978 sancisce l’importanza di sviluppare sistemi di cure primarie forti, seguita, nel 1986, dalla Carta di Ottawa24 che sottolinea l’importanza della promozione della Salute. La Dichiarazione di Alma Ata poneva nel 2000 il limite temporale entro cui sarebbe stato possibile garantire la salute per tutti. Tale obiettivo non fu raggiunto e nel 2008 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha licenziato il documento “Primary Health Care Now More Than Ever” per ribadire i principi della Dichiarazione di Alma Ata, basati su un modello di cure primarie di tipo comprehensive. A quest’ultimo documento, nel decennio della sua pubblicazione e a 40 anni da Alma Ata, si ispira il nome della campagna “2018: Primary Health Care Now or Never”, per rilanciare la necessità di riprendere il cammino per lo sviluppo di cure primarie forti, capaci di garantire equità e il diritto alla salute per tutti.
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